C’è un luogo dove non auguro a nessuno di doverci capitare, è al -1 di un edificio grigio e malinconico.
Il corridoio è strettissimo, le persone in carrozzina ci passano a
malapena. In questo luogo c’è una stanza in cui delle persone sedute
intorno ad un tavolo giudicano il tuo stato di disabilità.
“La commissione”, solo la parola mette ansia.
Un piano sotto terra. E’ lì il posto giusto per le persone disabili,
sotto terra. Questa è la considerazione che “la commissione” ha di noi. Persone messe lì a giudicare se sei abbastanza disabile o non molto.
Ogni volta la stessa storia. E’ troppo tempo che frequento questo luogo
è troppo tempo che subisco i loro sguardi. Come se la mia osteogenesi
imperfetta potesse guarire, come se il mio ginocchio, i legamenti, il
femore, il muscolo potessero ricrescere come accade alla coda delle
lucertole.
Alle mie ossa si aggiungono fratture ma per “la commissione” resto un individuo che chiede la loro carità.
Ma la cosa più assurda di tutte sapete qual’ è? Quando ho questo genere
di visite ci vado struccata. Ho ceduto alla loro ignoranza. Perché è
così che per loro funziona. Se sei disabile lo devi dare a vedere, devi
essere il più grigio possibile, trascurato, trasandato devi sembrare
disperato e depresso.
Devi per forza di cose rinunciare alla tua dignità. E’ cosi che loro amano vederti, è questo che si aspettano da te.
Come se una matita nera sugli occhi ti rendesse meno disabile.
Io mi truccavo anche durante la chemioterapia, ogni mattina strisciavo
verso il bagno e mezza morta mi truccavo, abbinavo un foulard al pigiama
e mi mettevo la crema per il corpo, lo facevo ogni volta che ero in
grado di tenere gli occhi aperti, nemmeno la chemio mi ha mai tolto la
mia dignità, l’amore che provo per me stessa. Questo non significa che
non stessi soffrendo, significa che io sono Chiara anche nelle
condizioni peggiori. Ma loro non lo capiscono. Se ti vedono con un filo
di trucco credono che tu sia guarita, che la tua disabilità dipenda da
quello. A loro non importa che lotto col dolore da quando sono bambina, a
loro non importa niente. Ti guardano con quelle facce supponenti
sapendo che ti hanno in pugno. E credetemi per “la commissione” non sei
mai abbastanza disabile, non importa se poi voliamo su aerei pilotati da
ciechi, ciò che conta è che siano loro a decidere chi sei.
Mi
guardo attorno e mi soffermo sui volti delle persone che attendono di
entrare, hanno la faccia di chi sta in equilibrio su una corda. La
faccia di chi sa di avere il coltello dalla parte sbagliata. Hanno la
mia stessa faccia.
Il numero scatta, è il mio turno, e tutti i
pensieri che ho elaborato muoiono in due minuti, uccisi dalla frase
gelida, disumana e senza speranza “abbiamo la sua relazione, può
andare”.
Chiara
Nessun commento:
Posta un commento